mercoledì 11 aprile 2012

Se il vuoto esiste


(c) lorenzo mattotti


Se il vuoto esiste, ne sono parte o ne sono escluso?
Il suono è presente o assente?

Il vuoto. L’ho lasciato quel giorno di trentasette anni fa, sotto le luci a neon dell’ospedale, mentre rosso piangevo, e loro ridevano, e la gioia e il dolore uniti. Cosa sono? Come può una sola anima contenere tutta questa potenza?
Il vuoto e la paura: presenza o assenza?

Il vuoto. L’ho immaginato, bambino, tutte le notti prima di addormentarmi, in quelle voci e quei volti paonazzi che fluttuavano come palloncini intorno alla mia coscienza. Ne avevo orrore, ne percepivo la perversione, la distanza, la corruzione, mentre la mia anima precipitava nel buco nero dell’adolescenza. Non avevo anticorpi, mi provocavano attacchi di asma e vertigini. La gola stretta, non avevo il coraggio di guardare, di parlare, di decidere della mia giovane vita.

Il vuoto. L’ho temuto, nelle notte insonni dell’adolescenza, nelle consolazioni chimiche del valium, mentre inconsapevole chiodavo una bara già stretta, e nei miei polmoni e sulla mia pelle si depositavano strati e strati di paura. Prigioniero della vita, già morto, legato mani e piedi alle abitudini di cui mai sono stato padrone. Ucciso prima di vivere dalle attese, dalle regole, dalle ipocrisie, dai ricatti, dall’ombra dell’amore.

Il vuoto. L’ho intuito quella notte davanti al mare con le braccia strette ai suoi fianchi.
E mi sentivo in pericolo, alla deriva, affogato dall’amore e dall’illusione dell’immortalità. Ma eterno, per davvero, nel respiro delle onde e nel pizzicore del sale.

Il vuoto. L’ho sospettato davvero quel giorno di sei anni fa, prima delle pustole sul mio corpo, e della confusione più totale di una nuova vita. Quel giorno, mentre stringevo mio figlio per la prima volta, e sentivo la pienezza del cuore, e comprendevo con tutto me stesso di essere completamente impreparato alla vita.

Il vuoto. L’ho saputo, per certo, al centro dei miei occhi, nella posizione della chiara visione, mentre abbandonavo la lotta contro i miei dolori e le forze contrarie. Mentre la luna si faceva di nuovo piena, regina tra le stelle.
Dove sei ora, dolce luna? Dietro a quelle nuvole che posizione occupi?

E l’ho saputo e dimenticato ancora, il vuoto, dopo che una nuova vita ha capovolto la mia, con un sorriso rinnovato e una forza al centro del petto che neppure intuivo, e che ora riconosco come un raggio il suo sole. Essere vicini e lontani, compagni e soli, innamorati e rabbiosi. Cercare una danza, perdere il passo, dimenticare la musica, ritrovarne l’origine, appoggiarsi a un ritmo base, madre terra, senza fiato, come un bacio primo, indivisibile, incorrotto, muto umido morbido.

Senza vuoto, tutto pieno, nella forma di un uomo che è solida nella sua eversione, ma piatta, disegno a matita, gomma da masticare, usa e getta, ultima della specie, barlume di luce a led, pallida imitazione dei colori della vita che indifferente canta i suoi silenzi.

Fermo. Potrò ascoltare immobile, davvero, nel centro del mio flusso, dentro e fuori su e giù pieno e vuoto? Potrò non tornare al passo della scimmia che mai rallenta, tutto nasconde, nulla comprende? E ritrovarti lì, in quella traslucida presenza d’amore che colma mentre svuota, mancato e mai nato, già vivo e incolto, puro e seme e luce e interno e incauto e inaudito? Forte perché privo di forma, immobile perché mai in quiete, puro perché mai lavato, senza potere su nulla, e tondo, cellula universo suono?
Canto?

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