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Joan Mirò, Paesaggio catalano con chitarra
racconto come ci si sente
Joan Mirò, Paesaggio catalano con chitarra
Ricevo da Harry Naybors e pubblico con il suo consenso:
Ausonia da tempo afferma con ideologia militante la necessità che le forme artistiche tornino a un’autenticità espressiva indipendente dai criteri commerciali e dal mercato.
Nell’ambito fumettistico, più volte ha posto la questione riaffermando la conflittualità tra prodotto commerciale e autoriale, con argomentazioni non banali e non semplicistiche quanto questo periodo potrebbe far supporre.
Interni, il suo ultimo lavoro, sembra accomodarsi in questo solco, a dispetto di quello che l'autore dichiara, laddove il protagonista è un autore affermato di romanzi di genere in crisi di identità.
Detto che l’approccio, come sempre, è originale sia sul piano della scrittura che del disegno, verrebbe da chiedersi perché tutta questa perdita di tempo. Un ordito talmente complesso a sostegno di un inganno futile, facilmente superabile con, per esempio, il “trucco” dello pseudonimo, non è giustificato se non dalla necessità dell’autore di voler a tutti i costi affermare l’Idea che il prodotto commerciale rende schiavi non solo i lettori ma, per primi, gli autori stessi.
Al che mi verrebbe da chiedere, siamo sicuri che affermati autori “popolari” non avrebbero la possibilità editoriale per realizzare opere più libere, autonome, autoriali, con conseguente successo di pubblico? È possibile che semplicemente questi autori non ne abbiano la voglia, non ne sentano la necessità?
È, questa possibilità, conseguenza dell’intorpidimento derivante dal pensiero commerciale e commercializzato che sottostà alle regole del prodotto di massa?
A giudicare dal risultato espressivo rappresentato da Interni, vien quasi da dire che, in questo caso, le riflessioni sul fumetto popolare abbiano contaminato negativamente il fumetto autoriale, dando origine a un prodotto sterile. E autoreferenziale. E inconsistente nelle sue motivazioni psicologiche ed euristiche. Peccato.
Harry.
Nonno Aurelio ha una crisi cardiaca. Ricoverato d’urgenza nell’area critica dell’unità coronarica, è in terapia intensiva, cosciente, ma col cuore che funziona al venticinque percento, se va bene. Siamo molto preoccupati. Dopo tre infarti, un’emorragia allo stomaco, una piccolo ictus, il suo equilibrio cardiovascolare è a dir poco fragile. Il suo attaccamento alla vita è ogni volta sorprendente, almeno quanto la sua ironia. La stessa, cinica e feroce, di Lorelei. La stessa che vedo negli occhi di Gabo. In attesa di sviluppi per capire se e come intervenire, ci spostiamo tra casa e sala d’aspetto, parlando con medici e infermieri. In terapia intensiva possono entrare solo parenti stretti, uno alla volta, per pochi minuti, bardati come astronauti. Io tengo a distanza di sicurezza Gabo, che chiede del nonno, che vuole la mamma, mentre la vede allontanarsi da dietro la porta.
Tardo pomeriggio, quasi le sei, torniamo in visita. In attesa dello scoccare dell’ora, Lorelei è in reparto con nonna Anita e zia Tiziana. Un finestrone giallo della sala d’aspetto è leggermente aperto. Il buio arriva con i suoni ovattati del traffico. Scendo nel giardino della clinica con Gabo. È contento perché ha la sua moto a tre ruote. È contento, eccitato ma agitato. Lo vedo da come muove gli occhi. Ci troviamo esattamente al di sotto del reparto, dove mamma Lorelei attende di sorridere a nonno Aurelio, preoccupata. C’è una lunga rampa che porta al seminterrato, dove c’è un bar per nulla frequentato, gli sgabelli rovesciati sui tavoli. Una ragazza di colore sembra impegnata ad ultimare le operazioni di sanificazione. Scioccamente penso, se non praticano decentemente la sanificazione qui, sotto alla clinica, dove altro potrebbero?
Gabo esulta. Scopre la rampa, e ci si butta con la moto. È tortuosa, a tratti decisamente inclinata, a tratti in piano. Lo seguo prima distrattamente, poi preoccupato per la velocità Rallenta! gli urlo. Arriva in fondo che quasi si ribalta. Raccomandazioni, fare attenzione, non correre troppo. E si riparte. Sale le scale, gli porto la moto sotto braccio. Mi dice Corri che ti prendo! Io davanti, a correre per la rampa, mentre lui mi insegue con la moto. Lo facciamo per più di dieci volte. Ride, urla di gioia. Penso disturberemo il reparto? Penso in questo luogo di sofferenza e di panico che forza hanno le grida di gioia di Gabo? Penso la gioia può arrivare in qualunque momento, in qualunque luogo. Penso sono felice.
Quarta discesa, Gabo arriva in fondo, scoppia in una risata, mi dice mi fa ridere questo gioco, sono felice! Lo bacio sulle guance rosse e fredde. I suoi occhi luminosi.
Mamma Lorelei, uscita dalla visita, mi dice che sentiva le urla di Gabo e che ne era felice. Abbraccia Gabo come una coperta. Chi copre chi, penso.