C'è un taboo molto forte che appartiene alla nostra società post-moderna, medicalizzata, farmacodipendente e chemioterapica: non riconoscere che la malattia è parte integrale della nostra vita, e che ne siamo responsabili.
Mi capita spesso di dire ad amici e conoscenti che quello specifico disturbo di cui sono afflitti è legato al proprio mondo, al proprio stile di vita, alle proprie condizioni intra-psichiche, e così via.
Il meccanismo è sempre quello: una debolezza organica (congenita) e spirituale non necessariamente può dare origine a una malattia. Ma essa si manifesta se ci sono specifiche condizioni personali: condizioni ambientali, emotive, di vita.
Di questo abbiamo piena responsabilità. Ma le persone non lo capiscono. Ne hanno paura.
C'è un grande paradosso qui, dettato dall'incomprensione circa il controllo e dall'illusione del quieto vivere.
Le persone preferiscono non sentirsi responsabili per il proprio stato di salute, e demandare ad altri le scelte e le cure. Piuttosto che sapersi responsabili e mettersi in prima persona a comprendere e cambiare il proprio rapporto con il corpo, la mente e le emozioni.
In questo modo si ottengono come minimo due effetti:
minimizzazione dei propri problemi di salute.
perdità completa di libertà personale.
Il farmaco appare come la via più breve, piuttosto che mettersi in discussione.
Ma il farmaco è in realtà la massima semplificazione e, in definitiva, la perdita della libertà.
Utilizzare i farmaci o la chirurgia nelle fasi acute, a rischio, è importante. Una risorsa della nostra modernità.
Ma abusarne, in particolare nelle situazioni croniche, è una violenza rispetto alla nostra sensibilità e vitalità.
Abituiamoci ad ascoltare e comprendere. A dare senso.
Anche al disagio, alla malattia.
Scopriremo cose molto importanti.
E saremo liberi.
giovedì 15 dicembre 2011
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