sabato 3 marzo 2012

Tav, il patto tradito

 foto tratta da qui


L'editoriale del numero attualmente in edicola di E-il mensile (il mensile che devi leggere).

L’estate scorsa lo Stato – non il governo, ma proprio lo Stato – ha permesso che in Val di Susa si celebrasse a suon di manganelli il rito funebre della propria autorità. Il primo errore è stato credere che si potesse rubricare come cronaca locale la protesta della gente del movimento No Tav, in prevalenza giovani, anziani e famiglie che con i loro sindaci quel giorno marciavano in pace contro le ruspe. Il secondo errore è la modalità violenta con cui le forze dell’ordine hanno scelto di relazionarsi con quel dissenso, segnando una svolta definitiva nei rapporti tra le istituzioni governative e le proteste popolari in Italia, questa e anche tutte le altre. Il terzo errore si è compiuto nelle passate settimane, quando le conseguenze di quei fatti sono proseguite fino all’arresto di 23 attivisti del movimento, con capi di imputazione che vanno dalla violenza alla resistenza a pubblico ufficiale. Si tratta di un atto giudiziario che, al di là delle appurabili responsabilità personali, è stato interpretato dalla popolazione resistente della Val di Susa come una risposta formale delle istituzioni all’intero movimento No Tav, che suona inequivocabilmente così: «Badate che, se si arriva allo scontro definitivo, noi abbiamo i mezzi per imporci e voi non avete quelli per opporvi senza rinunciare alla legalità». Questo messaggio ha trasformato la lotta dei No Tav in una battaglia simbolica che interessa tutte le forme di resistenza popolare che in Italia stanno agendo in forma organizzata contro decisioni statali ritenute lesive per i territori e chi li abita. I manganelli in Val di Susa hanno reso chiaro che non è più possibile ignorare la frattura tra la volontà dello Stato e le volontà della popolazione, non fosse altro perché – dagli studenti alle partite Iva, dai forconi siciliani ai pastori sardi – quella frattura sta portando in strada sempre più persone, sebbene con diversa fondatezza, chiarezza e talvolta anche legittimità. La questione della Val di Susa in questo scenario magmatico ha le caratteristiche di un paradigma perché è il solo caso in cui la violenza è emersa forzatamente dopo anni di resistenza pacifica, ma sempre inflessibile. I No Tav non possono rinunciare alla legalità per far valere le proprie ragioni, perché significherebbe perdere quell’autorevolezza etica che sin dall’inizio ha smosso il consenso popolare intorno alle ragioni del movimento, facendo sorgere solidarietà anche da molto oltre i confini territoriali del futuribile tracciato ferroviario dell’alta velocità. La forza dei No Tav sta tutta dentro a un paradosso: nei sistemi democratici il tipo di autorevolezza sociale di cui il movimento dispone dovrebbe in realtà essere un patrimonio morale dello Stato, in quanto incarnazione strutturale dell’autorità collettiva; ma cosa può succedere quando quel deposito di consenso tacito comincia ad appartenere proprio a chi contesta le decisioni dello Stato? L’esercizio di quell’autorità funziona solo se è retto da una relazione di reciproco riconoscimento tra due soggetti con ruoli chiari: questa è la base della pace sociale ed è per questo che gli atti di autorità per loro stessa natura non dovrebbero incontrare alcuna opposizione da parte di coloro ai quali sono diretti. Dato per buono il fatto che in una democrazia c’è sempre la possibilità teorica di opporsi, deve esistere da parte della popolazione la rinuncia cosciente e volontaria a servirsene: è solo questa rinuncia che consente allo Stato di essere normativo e in questa dialettica l’uso della forza non solo non è previsto, ma è proprio escluso, perché contraddittorio. Quando uno Stato deve usare la forza contro i suoi stessi cittadini – come è accaduto con le proteste popolari No Tav – significa che questo meccanismo è andato in frantumi. Mandare le forze dell’ordine in tenuta antisommossa a manganellare chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma l’ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa segnano uno spartiacque proprio perché rivelano con chiarezza come in questo Paese il patto di riconoscimento reciproco tra il diritto dello Stato a imporsi e la rinuncia delle popolazioni a opporsi sia venuto meno in maniera clamorosa, insinuando in un numero sempre maggiore di persone la certezza che la difesa del bene comune non possa passare, né ora né mai più, dalle mani che stringono il manico di un manganello.

Michela Murgia

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