mercoledì 18 novembre 2009

Da un caro amico mi arriva...



Da un caro amico mi arriva l’idea che quella che chiamiamo banalmente apertura del terzo occhio, che per alcune tradizioni è un fondamentale veicolo di trasformazione e realizzazione, altro non sia, in realtà, che una reazione psicosomatica che crea una sorta di dipendenza, quando sottoposta ai desideri dell’ego.
La connotazione è evidentemente negativa. La domanda che mi poneva il mio amico, semplificando, ha a che fare con il cambiamento profondo: esperienze anche prolungate di questo tipo portano a una reale trasformazione?
Aggiungo che il mio amico ha un’esperienza ben più profonda e prolungata di me in questi ambiti. Rispetto a lui sono una specie di novizio in erbe. Il che, per certi versi, mi rinfranca. So infatti per sentito dire che una delle difficoltà dei percorsi di meditazione è il tempo, superata la fase iniziale dell’entusiasmo. Il tempo mette a dura prova la concentrazione e la determinazione.
Insomma, all’interno di queste sintetiche considerazioni c’è un intero mondo. Complesso?
Forse no.

Leggendo il Libro Tibetano dei Morti, un’opera del V secolo d.C. che trovo poeticamente elevatissima e spiritualmente illuminante, si ritrova più volte un concetto chiaro e fortissimo: che la liberazione, superata la paura, sta nella piena consapevolezza presente, che non è consapevolezza dell’agire, ma puro movimento dell’essere senza mediazioni intellettuali. Io non lo so spiegare, per cui rimando al libro. Però una riflessione mi è nata stamattina. Che la pace che si genera dalla piena consapevolezza ha anche un profondissimo risvolto psicosomatico.

Abituati a usare in senso negativo (sintomatico) il termine “psicosomatico” rischiamo di vedere solo una faccia della questione. Se la ricerca (psicosomatica) è quella della pace, della calma della mente che si diffonde nel corpo, del rilassamento del corpo che si riflette nella mente, allora istantaneamente il problema scompare. In effetti, ritornando alle parole del mio caro amico, il punto probabilmente non sta nel risvolto psicosomatico, ma nell’ansia della ricerca, che sa abilmente piegarsi alle abitudini e alle ansie automatiche della quotidianità. Per quella che è la mia esperienza, le uniche vere risposte, le nostre più profonde risorse, sono l’attenzione consapevole al respiro e l’idea semplice quanto precisa espressa dal seguente mantra: “le sensazioni vanno e vengono come le nuvole del cielo”, che è l’esemplificazione del non attaccamento. Che è la capacità di non cadere nell’errore che Buddha chiama della seconda freccia. E che rappresenta la trappola più evidente che si affaccia alla nostra mente giorno dopo giorno dopo giorno, il più grande ostacolo alla determinazione al cambiamento, come opposto all’ansia della trasformazione, alla volontà dell’illuminazione, sottospecie falso-buddhica di attaccamento dell’io. Identificazione positiva insidiosa perché ben accolta e, per molti versi, molto amata.

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